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Schiavello
Diritto e convenzionalismo 87
Aldo Schiavello
Diritto e convenzionalismo
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. I presupposti della svolta convenzionalista. – 3. La
svolta convenzionalista.
1. Premessa
In relazione al diritto, il termine “convenzionalismo” esprime
più significati collegati fra loro. Procedendo dal significato più generico
a quello più specifico, vi sono almeno tre accezioni di “convenzionalismo”
che meritano di essere rilevate.
In una prima accezione molto blanda, la tesi convenzionalista
afferma che «il diritto è una funzione di pratiche sociali, senza
compromettersi con nessun punto di vista determinato relativamente
al tipo di funzione di cui si tratta» 1. In questa accezione affatto
generica, la tesi convenzionalista è considerata una ovvietà da tutte
le concezioni del diritto contemporanee e, dunque, sarebbe un errore
o, almeno, una semplificazione eccessiva, utilizzarla per tracciare
una linea tra prospettive giusfilosofiche riconducibili al positivismo
giuridico e prospettive giusnaturalistiche.
John Finnis, uno tra i principali esponenti del giusnaturalismo
contemporaneo, osserva ad esempio che: «per quanto la legge degli uomini [human law] sia un artefatto ed un artificio, e non una
conclusione necessaria a partire da premesse morali, tuttavia, sia
l’atto di porla sia il riconoscimento della sua positività (da parte dei
giudici, di chi per professione ha a che fare col diritto, dei cittadini,
e, pertanto, dagli studiosi che si pongono da una prospettiva descrittiva
o prescrittiva) non possono essere compresi a prescindere
dal riferimento ai principi morali che fondano e suffragano la sua
autorità ovvero che sfidano la sua pretesa autoritativa» 2. La prospettiva
di Finnis al riguardo non è affatto eccentrica o isolata, e
ciò è adeguatamente messo in evidenza in modo perentorio da
Christopher Kutz, il quale sostiene che «[…] anche da una prospettiva
giusnaturalistica la legalità non può prescindere da questioni
che riguardano fatti sociali: le istituzioni e le pratiche riempiono di
contenuto i principi di giustizia di fondo, e svolgono un’opera di
mediazione tra questi ultimi e le norme giuridiche presunte che sono
soggette al loro vaglio» 3.
In una seconda accezione, “convenzionalismo” o “convenzionalismo
giuridico” è l’etichetta che Ronald Dworkin adotta per denotare
una versione interpretativa del positivismo giuridico. Dworkin
compendia questa prospettiva giusfilosofica nel modo seguente: «il
diritto è il diritto. Non è ciò che i giudici ritengono esso sia, bensì
ciò che è effettivamente. Il compito dei giudici consiste nell’applicare
il diritto, non nel modificarlo per adeguarlo alla loro etica o
politica personale» 4.
In base alla ricostruzione proposta da Dworkin, per il convenzionalismo
l’esistenza del diritto implica l’assenza di controversie.
In questa seconda accezione, dunque, il termine “convenzionalismo” è sinonimo di “accordo”. Per il convenzionalismo, la funzione
principale del diritto è quella di tutelare le aspettative degli individui
e ciò può avvenire solo a condizione che questi ultimi siano
in grado di conoscere ex ante i comportamenti richiesti dal diritto.
Di conseguenza, l’ambito di estensione del diritto coincide con la
parte non controversa del significato delle disposizioni normative;
nel caso di disaccordi interpretativi, l’interprete è chiamato ad esercitare
una discrezionalità forte, vale a dire a creare la norma per il
caso da decidere piuttosto che applicare una norma preesistente. In
questa seconda accezione, il convenzionalismo giuridico coincide
con un certo tipo di positivismo giuridico, per molti versi assimilabile
a quello che Norberto Bobbio ha denominato “positivismo giuridico
come teoria”. A dire il vero, Dworkin riconduce a questa
prospettiva anche (e soprattutto) il normativismo di Hart. In questa
sede possiamo soprassedere su questo specifico aspetto della polemica
Hart/Dworkin 5, limitandoci a rilevare che l’etichetta convenzionalismo
giuridico designa una versione del positivismo giuridico
decisamente vintage e poco attraente.
In una terza e più specifica accezione, la tesi convenzionalista
individua una “svolta” (di parte) del positivismo giuridico contemporaneo
6, attraverso la quale il giuspositivismo ha ritenuto di trarsi
fuori dalle secche in cui è stato condotto da alcune puntuali critiche
mosse da Dworkin, sul finire degli anni ‘70 del secolo scorso 7, alla
practice theory of norms 8 di Hart. È soltanto questa l’accezione di
convenzionalismo giuridico che approfondisco in questa sede.
In breve, gli aspetti più interessanti della cosiddetta svolta convenzionalista
del positivismo giuridico riguardano il tema dell’obbligo di obbedire al diritto e della normatività del diritto. Il discorso
sulla normatività del diritto riguarda la capacità del diritto di essere
una ragione giustificativa dell’azione. Chi ritiene che il diritto possegga
tale capacità, può scegliere tra tre alternative: a) la normatività
del diritto dipende dalla coazione (“modello del bandito”); b)
la normatività del diritto dipende da ragioni morali (“modello della
morale”); c) la normatività del diritto è indipendente sia dalla coazione
sia da ragioni morali e deve essere ricondotta a quelle che
adesso possiamo accontentarci di denominare, genericamente, “ragioni
giuridiche” (“modello dell’autonomia”). In base al primo modello,
il diritto sarebbe una ragione prudenziale che agisce sull’ordine
gerarchico delle preferenze degli individui attraverso la minaccia
dell’uso della forza. Fatte salve rare eccezioni, gli esseri
umani preferiscono tenere per sé il proprio denaro piuttosto che
consegnarlo a terzi. La pistola del rapinatore puntata alla tempia di
un individuo modifica le preferenze di quest’ultimo: egli preferirà
rinunciare al proprio denaro pur di avere salva la vita. Il diritto, per
chi adotta questo modello, funziona in modo simile: nessuno pagherebbe
le tasse se all’evasione fiscale non fossero associate pesanti
sanzioni. I restanti due modelli sono accomunati dalla condivisione
della insofferenza nei confronti del modello del bandito. Il
limite principale di quest’ultimo modello è quello di non cogliere
una differenza cruciale tra le norme giuridiche e gli ordini del bandito.
Il bandito, attraverso le minacce, induce un determinato comportamento
ma non rende quel comportamento obbligatorio in senso
proprio. È corretto dire che un cassiere di banca che subisca una
rapina “sia stato costretto” o anche “obbligato” a consegnare il denaro,
ma non che “avesse l’obbligo” di consegnare il denaro. Il diritto,
al contrario, sembra essere in grado di produrre obblighi genuini.
Ciò è comprovato anche dal fatto che, in relazione alle prescrizioni
previste dalle norme giuridiche, espressioni come “si ha
l’obbligo di …” o “si deve …” sono, da un punto di vista semantico,
perfettamente adeguate. Secondo i sostenitori degli ultimi due
modelli ciò significa che la normatività del diritto non può fondarsi
su ragioni prudenziali ma deve essere ricondotta a ragioni morali o,
alternativamente, a ragioni giuridiche.
Da questo angolo visuale il positivismo giuridico “convenzionalista”
è interessante perché a) propone una spiegazione della norDiritto
e convenzionalismo 91
matività del diritto in parte originale rispetto alle spiegazioni elaborate
in precedenza e b) tenta di distinguere l’obbligo giuridico rispettivamente
dall’obbligo morale e dalla coazione. Si tratta dunque
di una versione del modello dell’autonomia 9.
Anticipando le conclusioni, sembra che le opzioni a disposizione
del convenzionalismo giuridico siano due ed entrambe, alla fine
dei conti, insoddisfacenti. La prima opzione – accolta anche da
Hart nel Poscritto – consiste nel difendere una versione “debole”
del convenzionalismo. Come vedremo, questa strategia è perdente
in quanto non propone una concezione della normatività del diritto
che consenta di emancipare il diritto dalla morale. La seconda opzione
– che accoglie una versione “forte” del convenzionalismo –
delinea un modello coerente di obbligo giuridico in chiave convenzionalista
ma al prezzo di distorcere la realtà.
Tali conclusioni sono l’esito del seguente percorso. In primo
luogo, è necessario ricostruire la practice theory of norms mettendo
in evidenza gli aspetti di tale teoria che sono presi di mira da
Dworkin e che, proprio per tentare di replicare alle critiche di
Dworkin, verranno rivisti dai giuspositivisti in chiave convenzionalista.
In secondo luogo, vanno presentate le critiche di Dworkin. In
terzo luogo, è approfondita la versione “debole” del convenzionalismo
e, infine, si delineerà, molto brevemente, la versione “forte”
che ha avuto un seguito modesto in letteratura.
2. I presupposti della svolta convenzionalista
2.1. La teoria dell’obbligo fondata sulle regole sociali
La practice theory of norms nasce dall’esigenza di distinguere –
in contrapposizione con l’imperativismo – le regole sociali dalle
abitudini, i comportamenti regolati da quelli regolari 10. Uno dei
principali limiti che Hart attribuisce all’imperativismo di John Austin
11 è infatti quello di non avere colto l’importanza di tale distinzione
e, proprio per questo, di avere proposto una concezione del
diritto all’interno della quale la nozione di “norma” o di “regola” è
oscurata.
Hart sostiene che i comportamenti regolari e quelli regolati hanno
in comune l’aspetto esterno, vale a dire la regolarità empiricamente
rilevabile di comportamenti convergenti. Le regole sociali, a
differenza delle abitudini, presentano anche un aspetto interno, che
consiste in «un atteggiamento critico riflessivo nei confronti di certi
modelli di comportamento intesi come criteri comuni di condotta
[che] si manifest[a] nella critica (compresa l’autocritica), nelle richieste
di conformità, e nel riconoscimento che simili critiche e richieste
sono giustificate: tutto questo trova la sua espressione caratteristica
nella terminologia normativa di dovere, obbligo, giusto e
sbagliato» 12.
La practice theory of norms consente ad Hart di superare in modo
più convincente rispetto a Hans Kelsen il problema del fondamento
della validità del diritto: una norma giuridica è valida se
soddisfa i criteri stabiliti dalla regola di riconoscimento che, a differenza
della norma fondamentale, è una regola sociale. La regola
di riconoscimento consente di ricondurre ad unità sistemica tutte le
norme giuridiche e di distinguere queste ultime dalle regole morali
o dalle regole di etichetta. Una regola di riconoscimento – così come
ogni altra regola sociale – esiste quando è possibile individuare
un gruppo di persone che accetta tale regola dal “punto di vista interno”.
Va ricordato che il “punto di vista interno”, non presuppone
l’accettazione morale di un sistema giuridico e dei suoi principi
fondamentali, ma soltanto un generico atteggiamento critico riflessivo,
empiricamente verificabile 13. Tale verifica empirica consiste
sia nell’analisi delle espressioni linguistiche che accompagnano gli
obblighi giuridici, sia nella osservazione del fatto che i funzionari, i
giudici in particolare, agiscono conformemente alle norme secondarie.
In conclusione, Hart intende l’accettazione del diritto in un
senso debole e per molti versi vago: accettare il diritto significa
considerare il comportamento prescritto dalle regole giuridiche
come un modello comune di comportamento. L’obiettivo di Hart è
difendere la tesi che il diritto è almeno in parte autonomo dalla morale.
Una questione ulteriore è quella di specificare qual è il gruppo
di persone la cui accettazione rileva in relazione all’esistenza di
una regola di riconoscimento e, conseguentemente, di un sistema
giuridico nel suo complesso. Per Hart è in linea di principio plausibile
che il punto di vista interno sia condiviso esclusivamente dai
funzionari e che i cittadini seguano le norme primarie solamente
per paura della sanzione.
Come anticipato, Hart elabora la sua concezione generale dell’obbligo
a partire dalla teoria delle regole sociali. L’esistenza di
una regola sociale è, secondo Hart, una condizione necessaria ma
non sufficiente affinché un determinato comportamento venga configurato
in termini di obbligo: se una persona ha l’obbligo di fare
qualcosa, allora sarà sempre possibile rinvenire una regola sociale
che fondi (o che contribuisca a fondare) tale obbligo; tuttavia, non
ogni regola sociale è indice dell’esistenza di un obbligo.
Hart individua tre condizioni che, unitamente all’individuazione
di una regola sociale, consentono di ricostruire un determinato
comportamento in termini di obbligo. La prima è che vi sia una
“persistente generale richiesta di conformità” al modello di comportamento
prescritto dalle regole ed una “grande pressione sociale”
su coloro il cui comportamento configuri una deviazione da tale
modello. La seconda condizione è che le regole siano considerate
rilevanti per il mantenimento della vita sociale in generale o di
qualche suo aspetto specifico. La terza, infine, è che il comportamento
che configura l’adempimento di un obbligo implichi un satura
crificio o una rinuncia e, di conseguenza, vi sia una “permanente
possibilità di conflitto” tra l’obbligo da un lato e l’interesse personale
dall’altro.
Peter Hacker, in un celebre saggio dedicato alla filosofia del diritto
di Hart, riassume la teoria hartiana dell’obbligo attraverso otto
condizioni 14. La prima condizione è che vi sia una regola sociale
che richieda a coloro che sono ad essa soggetti di comportarsi (o di
astenersi dal comportarsi) in un certo modo in determinate circostanze.
La seconda condizione è che la maggior parte dei membri
del gruppo ritengano che la regola sociale in questione sia importante
per il mantenimento della vita sociale o di qualche caratteristica
di questa altamente apprezzata. La terza condizione è l’esistenza
di un conflitto potenziale tra la condotta richiesta dalla regola
sociale e i desideri di coloro che sono soggetti alla regola. La
quarta condizione è l’esistenza di una conformità generalizzata da
parte del membri del gruppo nei confronti di quanto prescritto dalla
regola. In altri termini, la regola deve essere tendenzialmente efficace.
La quinta condizione è che le deviazioni dalla regola siano
seguite da serie reazioni critiche, tali da scoraggiare la violazione
della regola. La sesta condizione prevede che le eventuali deviazioni
dalla regola siano considerate come una buona ragione per
una reazione critica. La settima condizione prevede che tale reazione
critica sia generalmente considerata legittima; in altri termini, di
solito la critica per la deviazione dalla regola non è seguita da una
contro-critica. Infine, l’ottava condizione è che nel criticare i comportamenti
devianti si faccia largo uso del linguaggio normativo.
Il diritto, così come la morale, rientra nella sotto-classe dei sistemi
normativi in grado di produrre obblighi. Gli obblighi giuridici
possono essere distinti dagli obblighi morali perché dipendono
dalla regola di riconoscimento mentre questi ultimi da una regola
morale. Inoltre, gli obblighi morali presentano ulteriori caratteristiche che, considerate congiuntamente, consentono di distinguerli da
tutti gli altri tipi di obblighi e, dunque, anche dagli obblighi giuridici
15.
Diverse sono le obiezioni che minano in profondità la teoria
hartiana dell’obbligo nella sua versione originaria. Non a caso
Hart, in un passaggio di una lettera del 1980 alla figlia Joanna, in
cui la informa di avere cominciato a lavorare ad una replica alle
critiche a Il concetto di diritto, scrive: «[...] quando mi volgo al tema
dell’obbligo e metto da canto il mio libro per leggere le obiezioni
che ancora non ho adeguatamente approfondito [...] mi accorgo
di essere in profonda difficoltà, con la consapevolezza che dovrò
riconoscere un numero davvero grande di errori, relativi principalmente
(ma purtroppo non esclusivamente) all’ambito etico, e
l’impresa mi sembra immensa» 16.
In relazione alla svolta convenzionalista, bisogna guardare soprattutto
ai limiti della tesi secondo cui ogni obbligo presuppone
l’esistenza di una regola sociale.
2.2. Contro la teoria dell’obbligo fondata sulle regole sociali
Esiste dunque un legame inscindibile tra esistenza di un obbligo
ed esistenza di una regola sociale? Secondo Dworkin, no. Un vegetariano,
ad esempio, potrebbe affermare che esista un dovere di non
uccidere alcun essere vivente pur in assenza di una regola sociale
che prescriva effettivamente un modello di condotta di questo tipo.
In altri termini, un vegetariano può ritenere che esista un obbligo di
essere vegetariani anche nel caso in cui egli sia l’unico individuo al
mondo a ritenere che esista un tale obbligo.
Questo celebre esempio si propone di mostrare che la fonte degli
obblighi non sono le regole sociali, ma le regole morali, le regole
della moralità critica degli individui, regole che, non necessariamente,
sono anche regole sociali. Da ciò segue che gli unici obblighi
genuini (obblighi “tutto considerato”) sono obblighi morali
e, dunque, che non è possibile distinguere, a dispetto di quel che
afferma Hart, gli obblighi giuridici dagli obblighi morali in senso
proprio. Almeno, che non è possibile distinguerli nel modo in cui
pretende di distinguerli Hart ne Il concetto di diritto. Insomma:
«una norma giuridica può giocare un ruolo giustificativo nel ragionamento
pratico dei giudici solo in quanto venga accettata in virtù
dell’accettazione di un giudizio morale che fornisce legittimità a
una determinata autorità e di un giudizio descrittivo delle prescrizioni
di questa autorità [...]» 17.
Non resta dunque che prendere atto dell’inesistenza di un legame
concettuale tra obblighi e regole sociali ovvero è possibile
escogitare una strategia di difesa? È lo stesso Dworkin a indicare
ad Hart una via apparente per mettere al riparo, sia pur parzialmente,
la practice theory of norms da questa obiezione.
In prima battuta si potrebbe tentare di adottare la strategia conservativa
consistente nel ribadire la connessione necessaria tra obbligo
e regola sociale ogniqualvolta fosse possibile individuare una
regola sociale dietro al comportamento ritenuto obbligatorio.
Questa opzione è tuttavia preclusa a meno che non si distingua
tra due situazioni che sono qualitativamente differenti. La prima
situazione include i casi in cui il fatto che all’interno di una comunità
vi sia un accordo generalizzato sull’esistenza di un certo obbligo
è accidentale. In relazione a questi casi di “moralità coincidente”
(concurrent morality), l’accordo non rientra tra le ragioni essenziali
dell’esistenza dell’obbligo in questione. Si immagini, ad
esempio, che tutti i membri di una comunità siano vegetariani e
che, dunque, in quella comunità sia possibile riscontrare l’esistenza
di una regola sociale che vieti di uccidere esseri viventi per cibarsene.
L’esistenza di questa regola sociale non fonda l’obbligo, che
ciascun membro della comunità ritiene di avere, di non uccidere
esseri viventi. Verosimilmente, infatti, un vegetariano è convinto di
non dovere uccidere esseri viventi anche qualora nessuno condivida
questa sua credenza morale. In relazione a casi di questo tipo,
l’interazione tra l’esistenza di un obbligo da un lato e l’esistenza di
una regola sociale dall’altro è alquanto lasca: il fatto che tutti i
membri del gruppo accettino una determinata regola non è la ragione,
né una tra le ragioni, dell’accettazione di quella regola da
parte di ciascuno. In conclusione, nei casi in cui l’esistenza di una
regola sociale è accidentale, la fonte dell’obbligo non è la regola
sociale, che potrebbe anche non esserci, ma le convinzioni morali –
la moralità critica – di ciascun individuo.
La seconda situazione comprende i casi in cui l’accordo generalizzato
sull’esistenza di un certo obbligo è collegato in qualche
modo all’esistenza di un problema di coordinazione. In relazione a
questi casi di “moralità convenzionale” (conventional morality) si
può sostenere che risolvere un problema di coordinazione presuppone
un accordo, in senso ampio, tra coloro che si trovano implicati
in tale problema e, di conseguenza, l’accordo (che può consistere
nell’accettazione di una regola sociale) diviene una condizione almeno
necessaria dell’esistenza di un obbligo.
L’espressione “problema di coordinazione” individua una specie
particolare di interazione strategica in cui: a) ciascun agente
trae un vantaggio maggiore dalla cooperazione che dalla non cooperazione;
b) ciascun agente preferisce alcune azioni se, e solo se,
anche gli altri agenti preferiscono quelle azioni; c) vi siano almeno
due combinazioni di azioni che gli agenti mettono sullo stesso piano
come soluzione del problema di coordinazione (vi siano, in altri
termini, almeno due “equilibri di coordinazione”).
La soluzione di un problema di coordinazione di questo tipo richiede
che vi sia qualcosa che sospinga tutti gli agenti nella direzione
indicata da uno soltanto dei possibili equilibri di coordinazione.
In altri termini, quel che serve è qualcosa che attribuisca ad
uno soltanto dei possibili equilibri di coordinazione la salienza (salience)
necessaria ad essere preferito da tutti gli agenti.
Una possibile soluzione di un problema di coordinazione è
l’esistenza di una regola sociale convenzionale. Seguendo la ormai
classica analisi di David Lewis, una “convenzione” è una tra le so98
Aldo Schiavello
luzioni possibili di un problema di coordinazione: «una regolarità
R nel comportamento dei membri di una popolazione P quando essi
sono agenti in una situazione ricorrente S è una convenzione se e
solo se, in ogni caso di S tra i membri di P, (1) ciascuno si conforma
ad R; (2) ciascuno si aspetta che anche gli altri si conformeranno
ad R; (3) ciascuno preferisce conformarsi ad R a condizione che
anche gli altri vi si conformino, stante che S sia un problema di
coordinazione e la conformità uniforme ad R sia un appropriato
equilibrio di coordinazione in S» 18.
In taluni casi, una regola sociale potrebbe essere considerata
come una convenzione à la Lewis. Ad esempio, una regola sociale
che prescriva di guidare sul ciglio destro della carreggiata (o, indifferentemente,
su quello sinistro) è ciò che serve per coordinare il
traffico. In relazione a casi di questo tipo, la practice theory sembra
mantenere una certa plausibilità: dopotutto, che cosa è che “obbliga”
a guidare sul lato destro se non l’esistenza di una regola sociale
che dà la salienza necessaria a questa prassi?
Una difesa compiuta della practice theory non può arrestarsi a
questo punto, ma prevede che si mostri che la regola di riconoscimento
è una regola convenzionale. Questa è la strada intrapresa dal
convenzionalismo giuridico.
3. La svolta convenzionalista
3.1. Il convenzionalismo in senso debole
3.1.1. La svolta convenzionalista di Hart nel Poscritto
Nel dibattito giusfilosofico degli ultimi due decenni, l’importanza
del Poscritto è stata alquanto esagerata. Pur non potendo entrare
nel merito in questa sede, ritengo che Hart non avesse intenzione di
abiurare alle sue posizioni precedenti ma soltanto di proporre qualche piccolo aggiustamento e di chiarire alcune sue tesi che potevano
essere state travisate. Ciò non toglie che, come anticipato, sia
proprio il tema dell’obbligo a suscitare in Hart le preoccupazioni
maggiori.
I passaggi del Poscritto maggiormente rilevanti al fine di caratterizzare
come convenzionalista la concezione hartiana dell’obbligo
si trovano nel terzo paragrafo, intitolato The Nature of Rules (La
natura delle norme), e nel quarto paragrafo, intitolato Principles
and the Rule of Recognition (Principi e norma di riconoscimento).
Nel terzo paragrafo, Hart, dopo avere concesso a Dworkin che
l’ambito di estensione della sua teoria dell’obbligo debba essere ristretto,
sostiene tuttavia che essa si applichi nei confronti delle regole
convenzionali ed aggiunge che la regola di riconoscimento è
una regola convenzionale. Secondo Hart, «Le regole sono pratiche
sociali convenzionali se la generale conformità ad esse di un gruppo
è parte delle ragioni per le quali i membri individuali del gruppo
le accettano [...]» 19.
Il fatto che Hart consideri la “generale conformità” nei confronti
di una regola convenzionale solo “parte delle” ragioni per accettarla,
indebolisce la sua svolta convenzionalista. Hart non sostiene infatti
la tesi che l’unica ragione per cui un individuo è tenuto a considerare
obbligatoria una norma giuridica è che anche gli altri
membri del gruppo la considerano tale, ma la tesi, in effetti più ragionevole,
che la generale conformità dei membri del gruppo ad
una norma è una condizione necessaria e non sufficiente per ritenere
quella norma obbligatoria. Questa tesi, tuttavia, riconoscendo
che l’obbligo di obbedire al diritto possa dipendere anche da valutazioni
circa la giustizia e la correttezza morale delle norme non
consente di preservare l’autonomia del diritto dalla morale.
Per Hart, inoltre, anche nel Poscritto, le ragioni che possono indurre
ad accettare una regola sociale sono molteplici, per molti versi
insondabili e tutte sullo stesso piano. Al riguardo, l’unica differenza
apprezzabile tra l’edizione originaria e il Poscritto è che in
questo scritto postumo Hart esplicita con maggiore enfasi l’idea
che, nel caso delle regole sociali, l’accettazione da parte degli altri
membri del gruppo è una ragione necessaria per l’esistenza di un
obbligo. Ciò rende questa ragione diversa da tutte le altre e giustifica
la caratterizzazione della concezione dell’obbligo giuridico di
Hart come convenzionalista, sia pure in senso debole. In linea di
principio, taluni partecipanti, quelli maggiormente conformisti, potrebbero
considerare l’accettazione di una regola sociale da parte
degli altri come una ragione non solo necessaria ma anche sufficiente
per porre in essere il comportamento prescritto dalla regola.
In che senso dunque la regola di riconoscimento sarebbe una regola
convenzionale? La risposta di Hart è che tra le ragioni di ciascun
funzionario (o giudice) per accettare la regola di riconoscimento
vi è anche il fatto che i suoi colleghi fanno lo stesso.
In conclusione, nella replica postuma Hart si limita ad esplicitare
con maggiore chiarezza quella che, seguendo Bruno Celano 20,
chiamo “condizione di dipendenza”. La condizione di dipendenza
può essere intesa in senso forte o in senso debole. Se si sostiene che
l’unica ragione che un individuo ha per considerare una regola sociale
come un modello di condotta è che anche gli altri membri del
gruppo la considerano come tale, allora la condizione di dipendenza
è intesa in senso forte; se invece si sostiene che la generale conformità
dei membri del gruppo è soltanto una delle ragioni per
l’accettazione di una regola, allora la condizione di dipendenza è
intesa in senso debole. Hart accoglie la versione debole della condizione
di dipendenza.
Quel che è importante ribadire è che la natura convenzionale
della regola di riconoscimento non è sufficientemente forte da fondare
una teoria dell’obbligo giuridico ascrivibile al modello dell’autonomia;
soprattutto se si ritiene che tutte le ragioni per accettare
una regola siano “parassitarie” rispetto alle ragioni morali 21. L’unica
strada percorribile sembra dunque quella di rinunciare all’autonomia
dell’obbligo giuridico dall’obbligo morale, ma ciò implica
il fallimento del convenzionalismo debole come replica all’obiezione
di Dworkin presentata nel paragrafo precedente. Prima di rassegnarsi a questa conclusione è però opportuno guardare ad alcune
altre versioni del convenzionalismo debole.
3.1.2. Il diritto come attività cooperativa condivisa
La questione centrale, è bene ribadirlo, è la seguente: la regola
di riconoscimento è in grado di obbligare (almeno) i funzionari? Si
può sostenere che i funzionari abbiano «[…] il dovere di valutare la
condotta richiamandosi a tutte e solo a quelle norme che sono valide
in base alla regola [di riconoscimento]» 22?
A queste domande Jules Coleman risponde affermativamente,
sfruttando la nozione di “attività cooperativa condivisa” messa a
punto da Michael Bratman 23.
Alcuni interpreti di Hart negano che la regola di riconoscimento
sia una regola normativa, in grado di imporre obblighi e le attribuiscono
esclusivamente la funzione “semantica” di formulare i criteri
di validità giuridica vigenti in una comunità 24; dal punto di vista di
Coleman, questa posizione è criticabile anche per gli effetti “a cascata”
che produce sulla normatività del diritto nel suo complesso,
in quanto «[...] la pretesa delle regole subordinate alla regola di riconoscimento
di fornire ragioni per agire dipende dal fatto di essere
autorizzate dalla regola [di riconoscimento]» 25.
L’argomento esplicitato ne La pratica dei principi a sostegno di
una concezione convenzionalista dell’obbligo giuridico può essere
disarticolato in due passaggi. Il primo passaggio consiste nel mostrare
che la regola di riconoscimento è una ragione per l’azione; il
secondo che tale regola è anche in grado di imporre obblighi.
In relazione al primo passaggio, si può ritenere che la regola di
riconoscimento sia una ragione per l’azione (almeno) per i funzionari
in quanto è da loro accettata dal punto di vista interno. Questa
tesi tuttavia è opinabile e merita un approfondimento. Se si riduce
il punto di vista interno alla credenza dei funzionari di avere l’obbligo
di seguire la regola di riconoscimento, l’argomento appare
logicamente viziato: il mero fatto che qualcuno consideri una certa
regola una ragione per l’azione non è in grado di trasformare effettivamente
tale regola in una ragione per l’azione. Secondo Coleman,
questa interpretazione della nozione di “punto di vista interno”
non è accettabile. Il punto di vista interno, infatti, non sarebbe
una mera credenza, ma l’esercizio di una cruciale capacità psicologica
degli individui che consiste nel trattare una determinata pratica
o tipo di comportamento come norma. Si tratterebbe, secondo Coleman,
di una sorta di capacità innata, «la [cui] esistenza deve essere
spiegata […] in modo causale, sociologico, biologico, o, più genericamente,
facendo appello a un argomento evoluzionista che
identifichi il valore adattivo di tale capacità (per esempio, la sua
utilità nel mettere gli individui in condizione di intraprendere progetti
e nell’assicurare i vantaggi dell’attività coordinata)» 26. Per
chiarire la differenza tra una mera credenza e questa fondamentale
disposizione psicologica che induce a trattare un comportamento
come norma, Coleman si serve di un esempio. Se qualcuno prende
l’abitudine di fare cento flessioni al giorno, questa abitudine non è
in alcun modo una ragione in grado di giustificare il persistere di
questa pratica; ciò non significa che non possano essere addotte altre
ragioni – come il desiderio di mantenere la forma fisica, di
combattere lo stress e così via – ma soltanto che l’abitudine di fare
le flessioni non aggiunge alcunché alle ragioni ulteriori che eventualmente
vengano avanzate a sostegno di questa pratica. Se tuttavia
qualcuno assume nei confronti delle cento flessioni quotidiane
l’atteggiamento che consiste nel trattare questa attività come norma,
si è prodotta una ragione aggiuntiva rispetto alle ragioni preesistenti
(mantenere la forma fisica, combattere lo stress e così via).
Il punto di vista interno è dunque una disposizione che consente di
trasformare un comportamento in una regola o un fatto sociale in
un fatto normativo 27. In breve, nei confronti di una regola sociale,
si possono immaginare due diversi atteggiamenti. Il primo è l’atteggiamento
teoretico e descrittivo dello studioso e, in generale, dell’osservatore.
Il secondo è invece l’atteggiamento normativo di chi
si pone dal punto di vista interno e trae giudizi normativi non da un
fatto sociale ma dal proprio «coinvolgimento pratico nei confronti
dei fatti» 28.
Il modo in cui Coleman ricostruisce il punto di vista interno presenta
alcune oscurità. In particolare, la scarna spiegazione che egli
fornisce del punto di vista interno come capacità psicologica degli
individui ingenera il sospetto di circolarità dell’intero discorso: il
punto di vista interno spiega come la regola di riconoscimento possa
essere una ragione per l’azione in quanto esso è la manifestazione
di quella capacità psicologica degli individui che consiste nell’adottare
norme a guida del proprio comportamento; in altri termini,
nel considerare determinate norme come ragioni per l’azione.
Per amore dell’argomento, tuttavia, possiamo accogliere la ricostruzione
del punto di vista interno proposta da Coleman e concentrarci
sul secondo e decisivo passaggio del suo discorso che, come
anticipato, si propone di mostrare che la regola di riconoscimento
non sia soltanto una ragione per l’azione ma sia anche una regola in
grado di imporre obblighi.
Tra ragioni per l’azione ed obblighi non c’è una corrispondenza
biunivoca. L’esistenza di un obbligo presuppone che vi sia una ragione
per l’azione ma non ogni ragione per l’azione è in grado di
produrre obblighi. L’esempio della norma autoimposta di fare cento
flessioni al giorno è al riguardo emblematica. Nel momento in
cui si è deciso di trasformare il comportamento di fare cento flessioni
al giorno in una norma si è creata una ragione per l’azione
aggiuntiva. L’esistenza di tale norma dipende tuttavia da un atto
volontario individuale; di conseguenza, la norma in questione vige
sino a quando persiste la volontà di considerare come norma il
comportamento di fare cento flessioni al giorno. Se dunque tale
norma può essere estinta semplicemente ritirando l’adesione ad essa,
allora bisogna concludere che non si ha un obbligo di fare cento
flessioni al giorno visto che «fa parte della natura degli obblighi
che coloro che sono vincolati da essi non possano volontariamente
estinguerli come ragioni» 29. In breve, l’esistenza di un obbligo presuppone
che vi sia una norma nei confronti della quale non possiamo
revocare liberamente la nostra adesione.
Anche la distinzione tra ragioni per l’azione ed obblighi proposta
da Coleman suscita qualche perplessità. Sulla scorta di quanto
afferma Coleman sembrerebbe ad esempio che la morale (critica),
proprio per il fatto di essere un sistema di norme autonome, non sia
in grado di imporre obblighi e ciò è francamente paradossale. Anche
in questo caso, tuttavia, possiamo sorvolare sulle difficoltà e
continuare la presentazione della concezione dell’obbligo giuridico
difesa da Coleman.
Attraverso il punto di vista interno è possibile mostrare, in definitiva,
che la regola di riconoscimento fornisce ragioni per l’azione.
Per spiegare come essa sia anche in grado di imporre obblighi
bisogna guardare alla natura della pratica che impegna i funzionari.
A tal fine Coleman riprende da Margaret Gilbert l’esempio di
due persone che passeggiano insieme. “Passeggiare insieme” è una
attività o una pratica diversa da “camminare fianco a fianco”. Tra
le varie differenze c’è anche il fatto che il passeggiare insieme ha
una struttura normativa di cui non si riscontra alcuna traccia nel
camminare fianco a fianco. Nel caso di due persone che passeggiano,
le azioni e le intenzioni di ciascuna creano delle ragioni per l’altra.
Ad esempio, il fatto che una delle due persone giri a sinistra, o
che intenda o preferisca farlo, può dare all’altra persona una ragione
per girare a sua volta a sinistra. Inoltre, in questo caso, l’affidamento
e le aspettative giustificate 30 di entrambi gli individui fanno
sì che la norma “(nel corso di una passeggiata) se una persona volta
a sinistra, l’altra deve assecondarla” sia una norma che impone obblighi.
Si tratta di una norma, infatti, che non può essere abbandonata
a piacimento da ciascun individuo. Secondo Coleman, «[…]
quando i giudici adottano la pratica di applicare la regola di riconoscimento,
le azioni e le intenzioni degli altri giudici sono ragioni
per ognuno di loro; è come se passeggiassero insieme invece di camminare
semplicemente fianco a fianco» 31. Come nel caso della passeggiata,
quindi, la regola di riconoscimento è una norma che impone
obblighi in quanto tra le ragioni che ciascun funzionario ha
per seguire la regola c’è anche il fatto che gli altri funzionari fanno
altrettanto (condizione di dipendenza intesa in senso debole).
A dire il vero, l’argomento di Coleman è leggermente più articolato:
l’obbligo dei funzionari di seguire la regola di riconoscimento
dipende dal fatto che l’impresa in cui essi sono impegnati presenta le
caratteristiche di quelle che Bratman denomina attività cooperativa
condivisa. Un’attività di questo tipo è caratterizzata i) dalla «sintonia
reciproca» (mutual responsiveness); ii) dall’«impegno nella attività
congiunta» (commitment to the joint activity); iii) dall’«impegno all’aiuto
reciproco» (commitment to mutual support) 32.
Al riguardo, Dworkin osserva in modo convincente che non vi è
alcuna connessione necessaria tra la nozione di attività cooperativa
condivisa ed il convenzionalismo; un’attività cooperativa condivisa
– i cui casi paradigmatici sono cantare un duetto, dipingere insieme
una casa, fare un dai e vai a pallacanestro e così via – non è necessariamente
fondata su una convenzione o, comunque, su una regola,
ma richiede soltanto che i partecipanti «[comunichino] l’un con
l’altro e [aggiustino] costantemente il loro comportamento alla luce
di ciò che fa l’altro» 33. Di conseguenza: «ogni parte di una attività
cooperativa condivisa può giudicare da sé cosa è per essa appropriato
fare in ogni momento, in relazione a ciò che stanno facendo
gli altri, e senza alcuna guida da parte di una convenzione costituita
dal comportamento passato e atteso di altre persone» 34.
Inoltre, l’idea stessa di considerare il diritto un’attività cooperativa
condivisa è discutibile. Il fatto incontrovertibile che i funzionari
debbano in qualche misura coordinarsi – cosa che, peraltro, vale
per tutte le attività sociali – non è sufficiente per affermare che il
diritto sia una attività cooperativa condivisa. Una attività di questo
tipo richiede qualcosa di più: un impegno non conflittuale di tutti i
partecipanti nell’attività congiunta e la disposizione di ciascuno a
sostenere lealmente gli sforzi altrui nel perseguimento dell’obiettivo
comune. Il diritto è invece una pratica sociale caratterizzata da
un elevato grado di conflittualità. I giudici hanno idee diverse su
quale sia la loro funzione, su quale sia la soluzione corretta di una
determinata questione; i conflitti di attribuzione tra i diversi poteri
dello stato non sono rari e così via. Volendo rimanere agli esempi
di attività cooperativa condivisa proposti da Bratman e ripresi da
Coleman, è corretto dire che i funzionari, ed i giudici in particolare,
«fanno le loro passeggiate e costruiscono le loro case da soli o in
partiti, non tutti insieme» 35.
Infine, anche a voler concedere che il diritto sia una attività
cooperativa condivisa, va rilevato che, secondo Coleman, è l’affidamento
reciproco dei partecipanti che si impegnano in questa attività
a rendere i comportamenti di questi ultimi non più liberi ma
obbligatori. Tuttavia, il fatto che qualcuno faccia affidamento sul
comportamento altrui, di per sé, non è in grado di produrre alcun
obbligo; ciò che, eventualmente, potrebbe creare obblighi è il principio
morale di tutela dell’affidamento o di protezione delle aspettative
giustificate. E questa conclusione è chiaramente anti-convenzionalista
36.
3.1.3. Convenzioni costitutive e regola di riconoscimento
Andrei Marmor ricostruisce la regola di riconoscimento come
una “convenzione costitutiva di una pratica autonoma 37. Ciò che
accomuna le regole convenzionali di qualsiasi tipo è, innanzitutto,
l’“arbitrarietà” 38: se una regola è convenzionale, deve essere possibile
immaginare una regola alternativa. Poi, una regola convenzionale
è caratterizzata da quella che Celano ha denominato condizione
di dipendenza (cfr. par. 3.1.1).
La caratteristica saliente delle convenzioni costitutive di pratiche
autonome è quella di contribuire a delineare il senso o il valore
dell’attività in questione. In altri termini, la ragion d’essere delle
“pratiche autonome” non può essere pienamente individuata guardando a scopi o valori esterni alla pratica, ma va ricercata anche all’interno
della pratica stessa e, più precisamente, guardando alle
convenzioni che la costituiscono. Questa caratteristica delle convenzioni
costitutive individua un importante elemento di distinzione
con le convenzioni coordinative.
Il presupposto della nozione di convenzione di Lewis, infatti, è
che esista un problema di coordinazione che precede la convenzione
e che può essere compiutamente identificato in modo indipendente
dalla convenzione. Al contrario, le convenzioni costitutive
contribuiscono in modo decisivo a determinare una pratica sociale
la quale, di conseguenza, non è chiaramente distinguibile dalle regole
convenzionali che la costituiscono.
Marmor individua cinque caratteristiche rilevanti delle convenzioni
costitutive 39.
La prima caratteristica è la sistematicità: «ci vuole un sistema di
regole convenzionali per fondare una pratica sociale, vale a dire un
grappolo di regole attorcigliate intorno ad una struttura più o meno
complessa» 40. Al contrario, le convenzioni che costituiscono la soluzione
di un problema di coordinazione non presentano necessariamente
natura sistematica. In molti casi, è sufficiente un’unica
convenzione per risolvere brillantemente un problema di coordinazione.
La seconda caratteristica è la (parziale) autonomia della pratica,
che dipende dal fatto che i valori e gli interessi che spingono verso
la fondazione di una determinata pratica sociale sottodeterminano
le regole convenzionali. In altri termini, vi è un numero indefinito
di pratiche sociali potenziali che potrebbero tutelare i medesimi valori
ed interessi sottesi alla pratica esistente. Ad esempio, il desiderio
di cimentarsi in un’attività intellettualmente stimolante potrebbe
essere soddisfatto in molti modi diversi dal giocare a scacchi.
La terza caratteristica è la dinamicità: «[…] [a differenza delle
convenzioni coordinative] le convenzioni costitutive tendono a trovarsi
in un processo costante di interpretazione e reinterpretazione,
che è influenzato in parte da valori esterni e in parte dai medesimi
valori rappresentati dalla pratica convenzionale stessa» 41.
La quarta caratteristica è la “divisione del lavoro”. Il fatto che
alcuni, o anche molti, tra i partecipanti ad una determinata pratica
sociale abbiano una conoscenza soltanto parziale, o comunque approssimativa,
di tale pratica non è incompatibile con l’esistenza di
una convenzione costitutiva. Le cose stanno in modo alquanto diverso
nel caso delle convenzioni coordinative. Una convenzione
coordinativa, infatti, può risolvere un problema di coordinazione
soltanto se è conosciuta da tutti coloro che sono invischiati in tale
problema.
L’ultima caratteristica è la “condizione di efficacia”. Come si è
detto già all’inizio del paragrafo, non ha senso seguire una regola
convenzionale se questa regola non è effettivamente seguita dagli
altri. Marmor tuttavia riconosce che nel caso delle convenzioni costitutive,
a differenza delle convenzioni coordinative, il fatto che
gli altri membri del gruppo le seguano non costituisce l’unica ragione
per seguirle a propria volta: «le ragioni che gli individui hanno
per impegnarsi in pratiche convenzionali non possono essere ricondotte
esclusivamente al desiderio che vi sia uniformità nell’azione
» 42. In altri termini, si può dire che, in relazione alle convenzioni
coordinative, la condizione di efficacia è, al tempo stesso, una
condizione di esistenza ed una giustificazione delle convenzioni
mentre, in relazione alle convenzioni costitutive è soltanto una condizione
di esistenza. Da ciò si evince che la versione del convenzionalismo
giuridico proposta da Marmor – nella misura in cui il
diritto è visto come una pratica autonoma prodotta da convenzioni
costitutive – accoglie la condizione di dipendenza intesa in senso
debole.
Questa conclusione interlocutoria va approfondita osservando le
caratteristiche salienti che consentono di distinguere il diritto dalle
altre pratiche sociali, come i giochi ed i generi artistici, che si fondano
su convenzioni costitutive 43. La peculiarità del diritto rispetto
a queste ultime pratiche sociale è rappresentata dalla dimensione autoritativa
44. Dalla dimensione autoritativa del diritto scaturisce il
problema della partecipazione involontaria alla pratica giuridica (involuntary
membership). Mentre nessuno è costretto a giocare ad un
certo gioco, la partecipazione alla pratica giuridica prescinde dalla
nostra adesione volontaria ad essa. Il fatto che si è in qualche modo
costretti, anche tramite la minaccia dell’uso della forza, a rispettare
le norme giuridiche pone dei problemi in relazione alla intuizione
che la normatività del diritto richiede che esistano ragioni per una
partecipazione convinta alla pratica.
Secondo Marmor, la soluzione di tale problema risiede nella tesi
di carattere generale che il bisogno che vi siano ragioni non implica
l’effettiva possibilità di scelta. Il fatto che qualcuno abbia bisogno
di una buona ragione per fare A semplicemente non implica che
evitare di fare A debba essere una opzione praticabile. Marmor immagina
la situazione in cui qualcuno si trovi a dover scegliere tra
fare A o B, ed in cui l’opzione B, a dispetto di ciò che crede la persona
impegnata nella scelta, non sia effettivamente percorribile.
L’individuo in questione, considerate tutte le ragioni rilevanti, decide
di fare A. Il fatto che B non fosse disponibile come soluzione,
non implica che la decisione di fare A non sia una decisione basata
su ragioni. Per quanto sia corretto dire, sulla base di una mera osservazione
esterna, che fare A è l’unica conclusione possibile, il
processo che ha portato l’individuo dell’esempio a fare A è consistito
in un bilanciamento delle ragioni pro e contro questa soluzione
e ciò consente di affermare che egli ha posto in essere una decisione
basata su ragioni.
Se si modifica leggermente l’esempio, immaginando che l’individuo
sapesse in anticipo l’indisponibilità dell’opzione B, le cose,
secondo Marmor, non cambiano significativamente. A partire da
queste premesse, Marmor osserva che «anche se la maggior parte
degli individui non ha alcuna possibilità pratica di tenersi fuori dal
raggio d’azione del diritto, può darsi che le ragioni che essi (o almeno
alcuni fra essi) hanno per fare ciò che il diritto richiede siano
ragioni indipendenti da questa mancanza di scelta. Essi possono
semplicemente ritenere che sia bene essere partecipanti impegnati
nella pratica giuridica» 45. Dunque, la dimensione autoritativa del
diritto non è incompatibile con la capacità del diritto di fornire ragioni
per l’azione e di produrre obblighi.
Il punto cruciale consiste dunque nel mostrare, rispetto a quelli
che Marmor denomina “partecipanti impegnati”, quale concezione
della normatività del diritto discenda dal considerare la prassi giuridica
come il prodotto di convenzioni costitutive.
La strategia di Marmor consiste nel distinguere tra ragioni primarie
per l’azione e ragioni ausiliarie e nel riconoscere che soltanto
queste ultime hanno natura convenzionale.
Le ragioni primarie sono quelle che inducono a partecipare in
modo convinto ed impegnato ad una pratica sociale (nel nostro caso,
alla pratica giuridica). Queste ragioni hanno a che fare sia con i
valori esterni alla pratica che hanno prodotto la nascita della pratica
sia con i valori interni – parzialmente autonomi rispetto ai primi –
incarnati dalla pratica. La presenza di valori esterni, insieme al fatto
che i valori incarnati dalla pratica sono soltanto parzialmente autonomi
rispetto ai valori esterni, evita che la distinzione tra ragioni
primarie e ragioni ausiliarie si risolva in una circolarità viziosa 46.
Le ragioni ausiliarie sono quelle che discendono dall’esistenza
di regole convenzionali. Le convenzioni costitutive sono dunque
obbligatorie in modo condizionato, a condizione cioè che esista un
impegno preventivo a partecipare alla pratica in questione. Chi si
impegna a partecipare ad una pratica, si impegna a rispettare le regole
che la costituiscono. In relazione al diritto, la partecipazione
impegnata alla pratica fa sorgere tutta una serie di obblighi giuridici
definiti dalle norme ed in ultima istanza dalla regola di riconoscimento.
Il modo in cui Marmor distingue il diritto da altre pratiche sociali
suffraga la conclusione che egli accolga una versione particolarmente
debole della condizione di dipendenza: le regole convenzionali
forniscono solo ragioni ausiliarie per l’azione, ragioni cioè
che sono subordinate al riconoscimento di altre ragioni la cui validità
prescinde dal fatto di essere riconosciute come tali anche dagli
altri partecipanti.
3.2. Il convenzionalismo in senso forte
3.2.1. Diritto e coordinazione
Due sono le caratteristiche salienti del convenzionalismo giuridico
inteso in senso forte.
La prima è l’individuazione della funzione peculiare del diritto
nella risoluzione di problemi di coordinazione (cfr. par. 2.2.).
La seconda caratteristica è il collegamento necessario tra l’obbligo
di obbedire al diritto e la capacità del diritto di risolvere problemi
di coordinazione. Questa caratteristica implica l’accoglimento
della condizione di dipendenza intesa in senso forte: l’unica ragione
(o, la ragione essenziale) per considerare una norma giuridica
come un modello di condotta è il fatto che anche gli altri consociati
la considerano tale.
Si tratta di caratteristiche esigenti e, difatti, in letteratura, le
concezioni dell’obbligo giuridico in grado di soddisfarle sono molto
poche. Qui mi limito a presentare una breve analisi critica della
versione di Gerald Postema che si inserisce a pieno titolo nella controversia
Hart/Dworkin da cui la svolta convenzionalista è stata
originata 47.
«L’intuizione fondamentale [della teoria del diritto di Hart]»,
osserva Postema, «è che il diritto poggia, in ultima istanza, su una
consuetudine o convenzione peculiare e complessa». «Questa nozione di convenzione», egli aggiunge, «se intesa nel modo giusto
consente di conciliare la tesi che il diritto è un fatto sociale e la tesi
che esso è in grado di produrre obblighi genuini [...], in quanto una
convenzione è sia un fatto sociale sia un insieme di ragioni per l’azione
» 48. Secondo Postema, i problemi di coordinazione nel diritto
si presentano a tre diversi livelli. Il primo livello individua quei
problemi di coordinazione la cui esistenza è indipendente dal diritto
e che il diritto ha il compito di risolvere in modo autoritativo; gli
altri due livelli individuano i problemi di coordinazione che si manifestano
nel contesto di interpretazione/applicazione del diritto e
che riguardano, rispettivamente, funzionari e cittadini (secondo livello)
o soltanto funzionari (terzo livello).
Postema riconosce che il diritto è una ragione per l’azione dei
cittadini nella misura in cui o risolve problemi di coordinazione (di
primo livello) o incorpora e difende principi e valori morali da loro
accolti. È dunque lo stesso Postema a riconoscere che, nel caso dei
cittadini, l’obbligo giuridico non è autonomo dall’obbligo morale.
Riguardo all’obbligo dei funzionari e dei giudici in particolare di
rispettare le convenzioni interpretative di secondo e terzo livello, se
è vero che, da un lato, Postema rimarca, a partire da una determinata
concezione della responsabilità politica dei giudici, che tale obbligo
prescinde dal contenuto delle convenzioni esistenti e si presenta
quindi come indipendente da un obbligo morale che potrebbe
consistere, ad esempio, nell’adottare l’interpretazione del diritto ritenuta
giusta sulla base di determinati parametri morali, dall’altro,
egli si trova costretto a ritagliare uno spazio alla morale concedendo
che le valutazioni di tipo morale possono influire ex ante, prima
cioè che si consolidi una convenzione interpretativa, ad indirizzare
la scelta verso una delle possibili interpretazioni di una disposizione
e, ex post, nella misura in cui sia la stessa convenzione interpretativa
a riconoscere l’esercizio di discrezionalità all’interprete. Lo
spazio, alquanto ampio, che Postema assegna alle valutazioni morali
in ambito giuridico stride palesemente con la tesi che la funzione
principale del diritto sia quella di risolvere problemi di coordinazione in senso stretto. Il fatto poi che Postema negli anni abbia
indebolito questa tesi 49 è un indizio, insieme agli altri, della sua
scarsa plausibilità.
Per il convenzionalismo giuridico in senso forte (che sia internamente
coerente), la funzione del diritto è esclusivamente quella
di fornirci delle direttive per il comportamento; che queste ultime
siano corrette o accettabili dal punto di vista morale è irrilevante.
Tuttavia, tale ipotesi appare poco plausibile, anche considerando le
intuizioni di senso comune sul diritto: per noi, non è affatto indifferente,
ad esempio, che una costituzione tuteli l’eguaglianza di tutti
gli individui ovvero discrimini apertamente alcuni gruppi etnici o
religiosi.
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